“Il futuro è di chi sappia con mente agile unire le cosiddette due culture” (U. ECO)
sabato 7 marzo 2020
Quella maledetta "strenua inertia"...
La depressione è uno dei disturbi psichici
più pericolosi e diffusi, che tutti conoscono per esperienza diretta o meno;
può colpire chiunque e spesso porta chi ne soffre alla morte. Le cause della
depressione sono varie, i fattori che ne favoriscono la nascita sono di diversa
natura, ereditaria, psicologica, sociale e ambientale. Molti credono che la
depressione riguardi solo i soggetti più deboli, che hanno pochi amici o che
magari vivono una vita misera, in un contesto socio-economico danneggiato, ma
non è sempre così. Sono tanti i personaggi pubblici che soffrono o che hanno
sofferto di depressione, talvolta perdendo la vita o al contrario uscendone
vincitori; basti pensare a uno dei cantautori più celebri della musica
italiana, Vasco Rossi, che con la
canzone “Se ti potessi dire” mette a
nudo la sua anima, confidando il buio periodo di “malinconie, nostalgie,
rimpianti” che lo hanno quasi fatto sprofondare “nell’inferno della mente, che
esiste davvero”, per poi affermare che se ne avesse avuta l’opportunità avrebbe
rifatto tutti gli errori, le stesse delusioni, che gli hanno insegnato a
“vivere per amare, sognare, rischiare, diventare, vivere per adesso”. Un altro
errore molto comune è pensare che la depressione sia qualcosa di moderno, che
dunque non ha niente a che fare con il passato. Tutto ciò è sbagliato, non
lasciamoci ingannare dall’attualità dell’argomento; pensiamo ad esempio alla
cultura romana arcaica, dove la depressione era addirittura una dea. Si
chiamava Murcia e rendeva l’uomo
appunto “murcidus”, ossia estremamente pigro ed inattivo, immobile; per
fortuna a contrastare il suo influsso malefico c’erano Stimula, la dea che stimolava ad agire, e Strenia, quella che ispirava il coraggio e l’attività. Come fosse
di preciso l’aspetto di Murcia non lo sappiamo, ma possiamo provare a farci
un’idea dell’immagine che i romani avevano di lei: gli antichi eruditi
mettevano in relazione le parole “Murcia” e “murcidus” con il termine “marcidus”,
cioè con il “marcio”, dato che la
dea faceva marcire l’animo umano proprio come fa la depressione, immaginata
come una marcescenza dell’animo, che rende l’uomo incapace di agire, di provare
entusiasmo e addirittura di muoversi. Per indicare la depressione, il latino
poteva poi servirsi di un altro termine, “veternus”, che corrisponde a quel
morbo dell’animo che sprofonda gli uomini nel torpore e nella dimenticanza,
tutti sintomi tra l’altro connessi alla senescenza biologica; d’altronde è
evidente il collegamento di “veternus” con “vetus”, ossia “vecchio”.
Prima abbiamo detto che la depressione colpisce tutti, anche i soggetti meno “a
rischio”, e possiamo dire che lo stesso accadeva nell’antica Roma; pensiamo ad
esempio ad uno dei massimi autori della letteratura latina: Orazio. Quest’ultimo è sempre stato
dipinto come una personalità tranquilla, serena, equilibrata, perfetta quasi
quanto il suo impeccabile stile, ma negli ultimi tempi la critica moderna ha
finalmente abbandonato questa immagine stereotipata per parlare di un Orazio
ansioso, instabile, oggi diremmo “nevrotico”.
In realtà già gli antichi romani avevano compreso quale fosse la vera natura
del poeta: in particolare un antico commentatore dell’Ars Poetica definiva Orazio “melancholicus”, mentre lui stesso
preferiva descrivere il funesto torpore che lo affliggeva usando la vecchia
parola “veternus”, accompagnata dall’aggettivo “funestus”. Orazio dunque
viveva male, il suo animo (più del suo corpo) era malato ed egli si crogiolava
in questo dolore sino a respingere coloro che cercavano di aiutarlo, come i
medici e i suoi amici. Il suo male sembra consistere in una “depressione ansiosa”, che Orazio chiama
“strenua
inertia”, ossia la smaniosa immobilità, il sollecito torpore che
caratterizza chi ha male dentro. Questa espressione latina suscita il ricordo
delle dee romane di cui parlavamo sopra, Strenia e Murcia: la dea della
dell’attività e quella del torpore si fondono infatti in questa creatura
mostruosa, la “strenua inertia” appunto. Sempre riferendoci al malessere
interiore di Orazio bisogna dire che il poeta amava farsi rimproverare; spesso
infatti nei suoi scritti inserisce episodi che fungono da pretesto per essere
punito. Un esempio è quando in occasione dei Saturnali, in cui il ruolo del
padrone e quello del servo si scambiano, il servo Davo accusa Orazio di essere
volubile e falso, persino più schiavo di lui, perché il padrone è schiavo delle
sue stesse passioni. Il servo poi passa alla sfera amorosa, affermando che ai
suoi schietti amori si oppongono quelli angosciosi del padrone, che certamente
non contribuiscono a farlo sentire meglio. In un altro episodio, invece, il
poeta viene rimproverato dal filosofo Damasippo, che lo accusa di essere
irascibile, di vivere al di sopra dei propri mezzi e di cedere a mille furori
di ragazze e di ragazzi. In definitiva questo
piacere che Orazio prova rimproverandosi potrebbe essere letto da molti (in
particolare dai seguaci di Freud) come uno dei tratti tipici del malinconico;
lo psicoanalista dice infatti che il malato descrive il suo “Io” come
assolutamente indegno, incapace di fare alcunché e moralmente spregevole,
dunque si rimprovera e si aspetta di essere respinto o punito. La domanda che a
questo punto sorge spontanea è la seguente: per quale motivo Orazio fu di
temperamento malinconico? Non esiste una risposta unica e certa a tale domanda,
ma solo motivazioni varie e ipotizzate: in primis il periodo storico in cui il
poeta viveva, funestato da anni di guerre civili e orrori che certo non
potevano favorire lo sviluppo di temperamenti solari. Un’altra possibile
risposta potrebbe poi venire dal passato di Orazio, ma purtroppo le notizie che
abbiamo della sua vita sono alquanto scarse; altri invece cercano di trovare
una spiegazione nel pensiero degli antichi, in particolar modo quello degli
aristotelici, secondo cui “tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella
filosofia o nella politica o nella poesia o nelle arti mostrano di essere dei
melanconici”. Sono tanti infatti quelli che credono che il poeta avesse fatto
poesia proprio per combattere la sua “strenua inertia”, come se la poesia
rappresentasse per lui un luogo sicuro in cui rifugiarsi e sfogarsi. Alla fine
possiamo dire che non sarebbe sbagliato a ogni modo leggere le opere di Orazio
pensando all’incoercibile inclinazione verso il “funestus veternus”, di cui il
poeta stesso ci parla nei suoi versi, affermando che se sono il senno e la
ragione a liberarci dagli affanni, allora è inutile cercare di fuggire dalla
propria realtà per cambiare luogo e illudersi di risanare anche l’animo: ciò
che dobbiamo fare è goderci le piccole cose intorno a noi, che diventano fonte
di felicità a patto che il nostro animo sia tranquillo.
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