“Non si poria contar la sua piagenza,
ch’a le’ s’inchin’ ogni gentil vertute,
e la beltate per sua dea la mostra.
Non fu sì alta già la mente nostra
e non si pose ’n noi tanta salute,
che propiamente n’aviàn canoscenza”
(Guido Cavalcanti, "Chi è
questa che vèn, ch'ogn'om la mira")
Guido Cavalcanti,
celeberrimo poeta italiano del Duecento, in questo sonetto espone una
caratteristica tipica della produzione poetica italiana negli anni a cavallo
tra la seconda metà del XIII secolo e gli inizi del XIV. Tale caratteristica
consiste in un’asimmetria tra il
ruolo dell’uomo e quello della donna nel contesto dell’esperienza amorosa che,
per gli stilnovisti, è riservata solo a coloro che sono dotati del “cor gentile”,
cioè di animo nobile. Il poeta vuole presentare la donna come una creatura
superiore, dall'avvenenza straordinaria ed ineffabile, di fronte alla quale l'intelletto umano nulla
può per comprenderla appieno.
Spesso la donna è elogiata e ammirata a tal punto da
essere vista come un essere divino: ciò si evince nella stanza di congedo della
canzone di Guinizzelli “Al cor gentil rempaira sempre amore”:
“Donna, Deo mi dirà: «Che
presomisti?»,
sïando l’alma mia a lui
davanti.
«Lo ciel passasti e ’nfin a Me
venisti
e desti in vano amor Me per
semblanti:
ch’ a Me conven le laude
e a la reina del regname
degno,
per cui cessa onne fraude».
Dir Li porò: «Tenne d’angel
sembianza
che fosse del Tuo regno;
non me fu fallo, s’in lei posi
amanza»”.
In questi versi il poeta immagina
di trovarsi dinanzi a Dio, dal quale è rimproverato per aver amato un essere
terreno, e di giustificare questo peccato per il fatto che la donna amata assomigliava
ad un angelo.
A prescindere dalle evidenti
differenze tra i due poeti (ricordiamo che per Cavalcanti l’esperienza amorosa
rimane negativa, distruttiva, perché ancorata all’irrazionale passionalità
dell’uomo), una tale esaltazione della donna e la corrispondente collocazione
dell’uomo in una condizione di inferiorità, per la società dell’epoca, rappresentano
chiaramente un totale ribaltamento dei ruoli. È noto a tutti, infatti, che nel
Medioevo, e non solo, la donna era considerata il “sesso debole”, relegata
nell’ambito domestico, dedita esclusivamente ai lavori casalinghi e alla
generazione e cura dei figli; a qualunque ceto sociale la donna appartenesse,
lei doveva sottostare all'autorità dell'uomo di casa e, per giunta, non poteva
aprire un'attività in proprio né gestire quella del proprio coniuge dopo una
vedovanza.
Indubbiamente il discorso va
esteso ai temi dell'amor cortese, meno religiosi e introspettivi e più concreti
e moderati (per quanto concerne l'elevazione della figura femminile), alla
corte di Federico II di Svevia (1220-1250), di cui menzioniamo alcuni versi di
una canzone attribuita a Giacomo Da Lentini:
“S’eo guardo, quando passo,
inver’ voi, no mi giro,
bella, per risguardare.
Andando, ad ogni passo
getto uno gran sospiro
che facemi ancosciare;
e certo bene ancoscio,
c’a pena mi conoscio,
tanto bella mi pare.
(J. da Lentini,
"Meravigliosa-mente")
Seppur non accentuata, anche qui
la figura della donna viene posta in alto, sovrastante quella dell'uomo che, ci
dice il poeta, incrociando lo sguardo dell'amata una sola volta, non è in grado
di riconoscere più neppure sé stesso.
Come abbiamo visto, avvocati,
giudici di corte e guide politiche si dilettavano per diversi motivi a
riprodurre realtà ben differenti da quelle effettive (riscuotendo spesso anche
ottima fama) e possiamo benissimo dedurne il motivo: sarebbe stato arduo descrivere
sentimenti amorosi così profondi e toccanti verso un essere posto in una
posizione di subordinazione.
Possiamo dunque affermare che il
concetto di asimmetria è reperibile
anche nel rapporto stesso tra realtà e poesia: infatti, come si è detto, le vicende
descritte nei componimenti poetici sono tutt’altro che uno specchio della
società del tempo. Non solo la parità tra sessi, ma anche solo la visione della
donna come un essere pensante capace di elaborare informazioni e prendere
decisioni, erano, per l’epoca, ideali fin troppo astratti e questo ci fa
comprendere quanto fosse remota la possibilità che, in un ambito non poetico,
una donna fosse addirittura ritenuta un essere superiore.
Ma in fin dei conti quest’asimmetria tra realtà e poesia dà un
senso alla poesia stessa:
“Il poeta quando incomincia a
scrivere cerca quello che non c’è in nessuna parte del mondo, eppure riesce a
trovarlo.” (Plauto,
“Pseudolus”)
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