martedì 29 dicembre 2020

Diversità e uguaglianza: due fiumi nel mare della conoscenza.

 

Un aspetto fondamentale della vita umana è certamente la socialità, la relazione e il contatto con altri individui: il confronto con essi. E il confronto, si sa, implica sempre l’individuazione di uguaglianze e differenze, concetti cardine sui quali la mente umana fonda il suo metodo conoscitivo.

Il matematico Gianmarco Bianchi fornisce la definizione matematica di uguaglianza, diversità e loro annessi.

L’uguaglianza fra due numeri, rappresentata dal simbolo =, indica semplicemente che un numero è uguale a sé stesso: rappresenta, quindi, la conferma di una conoscenza già acquisita. È, invece, dall’osservazione della diversità che ha inizio il processo di apprendimento di nuove conoscenze. Infatti, la diversità si presenta sotto forma di non-uguaglianza (“≠”), per indicare che due numeri sono semplicemente diversi, ma anche sotto forma di disuguaglianza. Quest’ultimo tipo di diversità rappresenta uno strumento conoscitivo in quanto aggiunge nuove informazioni sui numeri confrontati: esso si esprime, infatti, con i simboli “>” (maggiore) o “<” (minore), stabilendo, in questo modo, una relazione tra i termini considerati e dando loro un ordine che prima non esisteva.

L’antitesi tra uguaglianza e diversità non è certamente causa di divisione, ma, anzi, è ciò che più lega i due concetti che, presi singolarmente, perderebbero di significato. Quest’intreccio tra uguaglianza e diversità, in matematica, è presente nel concetto di equivalenza. Si parla infatti di equivalenza tra due espressioni, diverse nella forma, ma uguali in valore: (56:8-3+1) = 25:(7-2) = 5.

Quando in un’espressione compaiono, insieme ai numeri, delle lettere, cioè delle incognite, l’espressione assume il valore di una domanda: ci si chiede per quali valori dell’incognita l’uguaglianza o la disuguaglianza sia verificata. Parliamo di equazioni e disequazioni. Se per le prime le soluzioni sono definite e in numero finito, per le seconde si parla di insiemi infiniti di numeri. Per esempio, la disequazione che ha per soluzione x<4 ci porta a considerare gli infiniti valori minori di 4, dividendo, così, l’insieme dei numeri reali in due gruppi diversi: quelli minori di 4 e quelli maggiori di 4.

Altra applicazione matematica del concetto di uguaglianza è l’uso di formule, leggi matematiche che legano più grandezze tra loro: l’aspetto più affascinante (e utile) delle formule è certamente la loro generalità. Una formula resta invariata, uguale, nonostante la scelta di valori numerici diversi.

Questa continua fusione della diversità nell’uguaglianza (o viceversa) è osservabile anche negli insiemi, grazie ai quali è possibile raggruppare elementi tutti diversi, ma con una o più proprietà uguali.

Considerando, ad esempio, l’insieme N=1;2;3;4;5;6;7; … dei numeri naturali, è possibile dividerlo in due sottoinsiemi P e D, rispettivamente dei numeri pari e dei numeri dispari. Questi due insiemi, entrambi contenenti numeri naturali, sono diversi per due aspetti: in primis, non hanno nessun elemento in comune; inoltre, l’insieme P, a differenza di D, è chiuso rispetto all’operazione somma (sommando due numeri qualsiasi in P, si ottiene un terzo valore appartenente a P).

P e D hanno, però, in comune il fatto di essere chiusi rispetto al prodotto (il prodotto di due numeri pari è ancora pari, così come il prodotto tra due numeri dispari è ancora dispari). Inoltre, entrambi gli insiemi contengono un numero infinito di termini che è possibile verificare essere proprio lo stesso. In generale, due insiemi hanno lo stesso numero di termini se è possibile stabilire una corrispondenza biunivoca tra i termini del primo e i termini del secondo insieme (ad ogni elemento del primo insieme è associato uno e un solo elemento del secondo e viceversa). In effetti, la corrispondenza che ad ogni numero n di P associa uno ed un solo numero n+1 di D è biunivoca: i due insiemi sono quindi uguali per numero di elementi e si dicono equipotenti. Dall’indagine sull’equipotenza di N rispetto ad altri insiemi numerici, si giunge alla conclusione che questa non esiste sempre: N ed R (insieme dei numeri reali, cioè razionali e irrazionali), pur essendo entrambi costituiti da infiniti termini, non sono equipotenti. Giungiamo alla conclusione che esiste una diversità anche tra infinità: ad oggi si conoscono solo l’infinità numerabile di N, e l’infinità più che numerabile di R, ma l’indagine su altri tipi di infinito è ancora in corso.

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Anche in geometria, disciplina che si occupa dello studio di figure geometriche (ossia insiemi di punti) ci si imbatte nei concetti di uguaglianza e diversità e soprattutto nella loro coesistenza. Parliamo, in particolare, dei concetti di coincidenza () e congruenza (). Due figure coincidono se ogni punto della prima sta su un punto della seconda, mentre sono congruenti se, attraverso un movimento rigido, è possibile portare una delle due figure a coincidere punto per punto con l’altra.

Diventa necessario, dunque, dare le definizioni di punto e movimento rigido.

Il punto è uno degli enti fondamentali della geometria piana, che, per definizione, non ha dimensione: per immaginare un punto, il matematico Bianchi consiglia di immaginare di “sgonfiare” una sfera piccolissima fino ad annullarla in tutte le direzioni. La coincidenza tra due punti, in geometria, corrisponde all’uguaglianza tra due numeri in matematica: conferma, infatti, che una figura è uguale a sé stessa, non aggiungendo nuove conoscenze.

Il movimento rigido corrisponde, invece, a un’isometria, ossia una trasformazione del piano cartesiano che ad ogni punto del piano associa uno e un solo punto del piano, lasciando invariate le distanze tra i punti considerati. Si tratta di traslazioni, rotazioni o simmetrie: trasformazioni il cui risultato è una figura diversa da quella di partenza, ma uguale quanto a distanza tra punti. In altri tipi di trasformazioni geometriche, come le omotetie, le affinità o le trasformazioni topologiche, la distanza tra i punti varia, ma vengono conservate, rispettivamente, le ampiezze degli angoli, l’allineamento tra punti, o la chiusura delle figure.

In sostanza, il significato di una trasformazione è dato non tanto da ciò che si trasforma, ma da ciò che resta invariato, uguale: ancora una volta il concetto di uguaglianza si inserisce nella definizione di una diversità.

Altra branca della matematica trattata da Gianmarco Bianchi è la logica, ossia la disciplina che stabilisce le regole del pensiero matematico e quindi umano. Uno dei procedimenti più diffusi nell’ambito della logica è l’implicazione logica (⇒, “implica”): se vale un enunciato A, si deduce che vale anche un secondo enunciato B (AB). Ad esempio, essendo verificato l’enunciato A: “un numero n è multiplo di 6”, sarà valido l’enunciato B: “un numero n è multiplo di 2”: sarà, quindi, vero che “se un numero n è multiplo di 6, allora è anche multiplo di 2”. Tra gli enunciati A e B dell’esempio esiste una differenza gerarchica: se vale A, allora vale B, ma non è vero il contrario, cioè che A implica B.

Considerando, allora, un terzo enunciato C: “un numero n è multiplo sia di 2 che di 3”, possiamo osservare tra A e C un rapporto di uguale gerarchia: AC, “un numero n è multiplo di 6 se e solo se n è multiplo sia di 2 che di 3”. In questo caso, se vale A, allora vale C e viceversa: si tratta di un’equivalenza logica.

Due affermazioni logicamente equivalenti, pur essendo diverse, hanno uguale valore.

 

Il matematico Bianchi conclude affermando che l’uguaglianza e il diverso si innamorano l’uno
dell’altra e, dall’amore che li lega in eterno, nasce continuamente una creatura bellissima: la conoscenza
. Infatti, come si è visto per i concetti di equivalenza, formula, equipotenza e movimento rigido, solo quando nella diversità si insedia l’uguaglianza (o viceversa), quando in una variazione si tiene conto anche di ciò che resta invariato, quando in due espressioni strutturalmente diverse si trova lo stesso significato, si giunge a nuove informazioni sugli elementi di studio, si progredisce, si cresce. 

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Come spesso accade, la matematica è capace di fornire insegnamenti che vanno oltre il semplice studio della disciplina: impariamo, in questo caso, in quanto umani, a comprendere la ricchezza della diversità, che porta sempre nuova conoscenza, ma anche a saper osservare quell’uguaglianza di fondo che, rendendoci tutti vulnerabili, ci spinge ad essere sempre più empatici e solidali.

giovedì 4 giugno 2020

Deucalione e Pirra,Metamorfosi, Libro I, Ovidio


Deucalione e Pirra, rimasti gli unici in vita in seguito al diluvio universale, ripopolano il pianeta gettandosi alle spalle le "ossa" della Terra. Un nuovo inizio che può spronarci ad affrontare al meglio le problematiche legate al Covid-19.

sabato 7 marzo 2020

Quella maledetta "strenua inertia"...

La depressione è uno dei disturbi psichici più pericolosi e diffusi, che tutti conoscono per esperienza diretta o meno; può colpire chiunque e spesso porta chi ne soffre alla morte. Le cause della depressione sono varie, i fattori che ne favoriscono la nascita sono di diversa natura, ereditaria, psicologica, sociale e ambientale. Molti credono che la depressione riguardi solo i soggetti più deboli, che hanno pochi amici o che magari vivono una vita misera, in un contesto socio-economico danneggiato, ma non è sempre così. Sono tanti i personaggi pubblici che soffrono o che hanno sofferto di depressione, talvolta perdendo la vita o al contrario uscendone vincitori; basti pensare a uno dei cantautori più celebri della musica italiana, Vasco Rossi, che con la canzone “Se ti potessi dire” mette a nudo la sua anima, confidando il buio periodo di “malinconie, nostalgie, rimpianti” che lo hanno quasi fatto sprofondare “nell’inferno della mente, che esiste davvero”, per poi affermare che se ne avesse avuta l’opportunità avrebbe rifatto tutti gli errori, le stesse delusioni, che gli hanno insegnato a “vivere per amare, sognare, rischiare, diventare, vivere per adesso”. Un altro errore molto comune è pensare che la depressione sia qualcosa di moderno, che dunque non ha niente a che fare con il passato. Tutto ciò è sbagliato, non lasciamoci ingannare dall’attualità dell’argomento; pensiamo ad esempio alla cultura romana arcaica, dove la depressione era addirittura una dea. Si chiamava Murcia e rendeva l’uomo appunto “murcidus”, ossia estremamente pigro ed inattivo, immobile; per fortuna a contrastare il suo influsso malefico c’erano Stimula, la dea che stimolava ad agire, e Strenia, quella che ispirava il coraggio e l’attività. Come fosse di preciso l’aspetto di Murcia non lo sappiamo, ma possiamo provare a farci un’idea dell’immagine che i romani avevano di lei: gli antichi eruditi mettevano in relazione le parole “Murcia” e “murcidus” con il termine “marcidus”, cioè con il “marcio”, dato che la dea faceva marcire l’animo umano proprio come fa la depressione, immaginata come una marcescenza dell’animo, che rende l’uomo incapace di agire, di provare entusiasmo e addirittura di muoversi. Per indicare la depressione, il latino poteva poi servirsi di un altro termine, “veternus”, che corrisponde a quel morbo dell’animo che sprofonda gli uomini nel torpore e nella dimenticanza, tutti sintomi tra l’altro connessi alla senescenza biologica; d’altronde è evidente il collegamento di “veternus” con “vetus”, ossia “vecchio”. Prima abbiamo detto che la depressione colpisce tutti, anche i soggetti meno “a rischio”, e possiamo dire che lo stesso accadeva nell’antica Roma; pensiamo ad esempio ad uno dei massimi autori della letteratura latina: Orazio. Quest’ultimo è sempre stato dipinto come una personalità tranquilla, serena, equilibrata, perfetta quasi quanto il suo impeccabile stile, ma negli ultimi tempi la critica moderna ha finalmente abbandonato questa immagine stereotipata per parlare di un Orazio ansioso, instabile, oggi diremmo “nevrotico”. In realtà già gli antichi romani avevano compreso quale fosse la vera natura del poeta: in particolare un antico commentatore dell’Ars Poetica definiva Orazio “melancholicus”, mentre lui stesso preferiva descrivere il funesto torpore che lo affliggeva usando la vecchia parola “veternus”, accompagnata dall’aggettivo “funestus”. Orazio dunque viveva male, il suo animo (più del suo corpo) era malato ed egli si crogiolava in questo dolore sino a respingere coloro che cercavano di aiutarlo, come i medici e i suoi amici. Il suo male sembra consistere in una “depressione ansiosa”, che Orazio chiama “strenua inertia”, ossia la smaniosa immobilità, il sollecito torpore che caratterizza chi ha male dentro. Questa espressione latina suscita il ricordo delle dee romane di cui parlavamo sopra, Strenia e Murcia: la dea della dell’attività e quella del torpore si fondono infatti in questa creatura mostruosa, la “strenua inertia” appunto. Sempre riferendoci al malessere interiore di Orazio bisogna dire che il poeta amava farsi rimproverare; spesso infatti nei suoi scritti inserisce episodi che fungono da pretesto per essere punito. Un esempio è quando in occasione dei Saturnali, in cui il ruolo del padrone e quello del servo si scambiano, il servo Davo accusa Orazio di essere volubile e falso, persino più schiavo di lui, perché il padrone è schiavo delle sue stesse passioni. Il servo poi passa alla sfera amorosa, affermando che ai suoi schietti amori si oppongono quelli angosciosi del padrone, che certamente non contribuiscono a farlo sentire meglio. In un altro episodio, invece, il poeta viene rimproverato dal filosofo Damasippo, che lo accusa di essere irascibile, di vivere al di sopra dei propri mezzi e di cedere a mille furori di ragazze e di ragazzi. In definitiva questo piacere che Orazio prova rimproverandosi potrebbe essere letto da molti (in particolare dai seguaci di Freud) come uno dei tratti tipici del malinconico; lo psicoanalista dice infatti che il malato descrive il suo “Io” come assolutamente indegno, incapace di fare alcunché e moralmente spregevole, dunque si rimprovera e si aspetta di essere respinto o punito. La domanda che a questo punto sorge spontanea è la seguente: per quale motivo Orazio fu di temperamento malinconico? Non esiste una risposta unica e certa a tale domanda, ma solo motivazioni varie e ipotizzate: in primis il periodo storico in cui il poeta viveva, funestato da anni di guerre civili e orrori che certo non potevano favorire lo sviluppo di temperamenti solari. Un’altra possibile risposta potrebbe poi venire dal passato di Orazio, ma purtroppo le notizie che abbiamo della sua vita sono alquanto scarse; altri invece cercano di trovare una spiegazione nel pensiero degli antichi, in particolar modo quello degli aristotelici, secondo cui “tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia o nella politica o nella poesia o nelle arti mostrano di essere dei melanconici”. Sono tanti infatti quelli che credono che il poeta avesse fatto poesia proprio per combattere la sua “strenua inertia”, come se la poesia rappresentasse per lui un luogo sicuro in cui rifugiarsi e sfogarsi. Alla fine possiamo dire che non sarebbe sbagliato a ogni modo leggere le opere di Orazio pensando all’incoercibile inclinazione verso il “funestus veternus”, di cui il poeta stesso ci parla nei suoi versi, affermando che se sono il senno e la ragione a liberarci dagli affanni, allora è inutile cercare di fuggire dalla propria realtà per cambiare luogo e illudersi di risanare anche l’animo: ciò che dobbiamo fare è goderci le piccole cose intorno a noi, che diventano fonte di felicità a patto che il nostro animo sia tranquillo.






venerdì 17 gennaio 2020

"Quando Van Gogh sintetizzò la turbolenza" (articolo di Matteo Arpaia)

Il giorno 19 dicembre la nostra classe ha assistito alla mostra immersiva di Van Gogh a Salerno, presso il Complesso monumentale di Santa Sofia.
Pur non essendo presente alcun quadro del pittore olandese, i suoi pensieri e le sue emozioni ci sono pervenute mediante fedeli ricostruzioni virtuali. L'esperienza è stata quanto mai interattiva: è bastato indossare dei visori 3D per ritrovarsi in una campagna simile a quelle in cui Van Gogh realizzò gran parte dei suoi capolavori e, cosa più straordinaria, erano proprio i suoi quadri a comporre il paesaggio.
Chi volesse sperimentare un'esperienza irripetibile, così intima con l'arte, non potrebbe desiderare di meglio.

Come è risaputo, il pittore impressionista soffriva di gravi disturbi psichici per i quali venne confinato in manicomio. Tuttavia la condizione psichica di Van Gogh può ben essere definita inversamente proporzionale alla sua creatività ed alla sua abilità col pennello, con il quale riusciva a tirar fuori il meglio di sé.
Forse non tutti sanno che studi del nuovo millennio hanno evidenziato come, proprio in quei momenti di lucida follia, la mano dell'artista fosse stata in grado, a grandi linee, di rappresentare un'equazione fisica che descrive la turbolenza fluida.
Il regime turbolento, in fisica, consiste nel flusso caotico delle particelle di un fluido governato dalle leggi del caos deterministico che, a meno di una conoscenza praticamente impeccabile delle coordinate necessarie a descriverlo in un dato istante (cosa pressoché impossibile), non ci permettono di predire il comportamento del flusso nel tempo.
Questo fenomeno fisico è uno dei tasti dolenti della fisica moderna poiché costituisce tuttora un mistero irrisolto, sebbene sperimentalmente risultati prossimi alla realtà siano stati raggiunti da tempo.
Risulta quantomeno singolare immaginare come un uomo, che dall'esterno poteva sembrare incapace di intendere e di volere, fosse in grado di elaborare e addirittura di raffigurare dati così complessi sui fluidi e i loro moti.
Ciononostante è proprio ciò che accadde nel 1889  quando Van Gogh dipinse la celebre "Notte Stellata".
Con rapide pennellate è stata possibile la realizzazione di quelle che un matematico definirebbe spirali auree e che numerosi scienziati, in seguito a meticolosi studi sul dipinto, hanno scoperto essere rapportabili a quelle strutture fluide turbolente di cui sopra.
Constatare come da un quadro di oltre cento anni possa prendere forma un percorso interdisciplinare che, vista l'attualità degli studi che abbiamo menzionato, è destinato ad estendersi ulteriormente, è forse la miglior opera d'arte cui un artista possa aspirare.


Ritratto di Vincent Van Gogh


Regime turbolento
"Notte stellata"



GALILEO GALILEI: QUANDO L'UMANITA' CONOBBE LA LUNA


Il Seicento è il secolo della repulsione verso il tradizionalismo e l'ipse dixit aristotelico che, nei secoli precedenti, avevano profondamente influenzato (per non dire impedito) il progresso scientifico; è, questo, il secolo della rivoluzione scientifica, che vede protagonisti Bacon, Cartesio e Galileo, promotori di un'osservazione empirica dei fenomeni reali e di una metodologia di ricerca basata su principi matematici.
Galileo, in particolare, introduce un metodo scientifico sperimentale composto da una prima fase di analisi di un dato fenomeno, attraverso le sensate esperienze, e da una seconda fase di necessarie dimostrazioni, che rappresentano la sintesi delle osservazioni condotte precedentemente.
Galileo Galilei fu, inoltre, sostenitore della teorie eliocentrica di Copernico e, in ambito astronomico, si devono a lui, prime fra tutte, le scoperte riguardo la superficie lunare, i satelliti di Giove e la natura della Via Lattea, rese possibili dall'uso del cannocchiale.
Una bozza di Galileo della superficie lunare
È nel trattato scientifico Siderus Nuncius che lo scienziato pisano annuncia le sue scoperte e fornisce informazioni riguardo il particolare strumento che ha utilizzato.
Egli racconta di come, osservandola dal cannocchiale, sia riuscito a scorgere la superficie lunare che, diversamente da ciò che affermava la teoria tolemaica, non risulta liscia e levigata, ma scabra, del tutto assimilabile alla superficie terrestre, ricoperta di escrescenze e rientranze (monti e valli). 
Galileo afferma che, attraverso il cannocchiale, la luna gli era apparsa 30 volte più vicina, "sicché il suo diametro apparisca circa trenta volte maggiore, la superficie quasi novecento, il volume poi approssimativamente ventisettemila volte più grande di quando sia veduto ad occhio nudo". Particolari sono le proporzioni matematiche utilizzate per spiegare il funzionamento dello strumento utilizzato.
Galileo al cannocchiale
Pur non avendo a disposizione alcuna formula né per il calcolo della superficie né per quello del volume di una sfera (la luna), lo scienziato intuisce che la misura dell'area riguarda una moltiplicazione, dunque moltiplica una sola volta per sé stessa l'unica dimensione nota della sfera, il suo diametro: ne consegue che se il diametro visto dal cannocchiale è 30 volte maggiore di quello reale, allora la superficie percepita dal cannocchiale sarà 900 (=30^2) volte maggiore di quella effettiva. Attraverso un'intuizione simile, Galileo moltiplica due volte per sé stesso il diametro lunare (elevandolo, quindi, al cubo) concludendo che, dal cannocchiale, la luna risulta 27000 (=30^3) volte più grande rispetto alla realtà. Nonostante Galileo fornisca valori numerici tanto dettagliati, oggettivi, basati, ovviamente, su formule matematiche, il suo linguaggio non risulta freddo né distaccato, ma presenta un tono solenne, quasi commosso, nel quale si evince la felicità e la soddisfazione con cui lo scienziato comunica le proprie scoperte. Sono presenti, infatti, espressioni suggestive come "l'eccellenza della materia" o frasi che descrivono il piacere umano e genuino che Galileo prova nell'osservare la Luna: "Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare".
In effetti, l'intenzione a tratti celebrativa di Galileo si evince già nei primi righi del trattato: infatti i primi tre periodi cominciano rispettivamente con "Grandi invero sono le cose[...]", "Grandi, dico, [...]" e "Gran cosa è certo[...]".
Attraverso questa anafora lo scienziato rende subito nota ai lettori l'importanza dei temi trattati.
Il cannocchiale di Galileo
Nella seconda parte del trattato Galileo si sofferma sull'invenzione del cannocchiale (a opera di un fiammingo) e sul perfezionamento dello strumento messo in atto da lui stesso. Anche in questo caso il linguaggio matematico è accostato a quello poetico: infatti, come per la descrizione dell'osservazione della luna, attraverso un climax ascendente, Galileo racconta il progressivo affinamento del proprio cannocchiale, che passerà dal fornire un'immagine 3 volte più vicina e 9 volte più grande, al fornirne una più di 30 volte più vicina e quasi 1000 volte più grande.
Ancora una volta, Galileo si lascia andare al racconto appassionato e soggettivo dell'esperienza di studio che ha vissuto: lo si evince, in particolare, dalla frase "[...]osservai con incredibile godimento dell'animo le Stelle[...]". L'osservazione degli astri reca al poeta un senso di soddisfazione non solo, se così si può dire, sul piano "lavorativo" ma un senso di appagamento personale che ci fa comprendere quanto il mestiere dello scienziato, nonostante il rigore matematico, coinvolga in modo particolare il soggetto anche sul piano umano.

Gli studi di Galileo sui rapporti matematici tra le grandezze reali e quelle osservate al cannocchiale
possono essere rappresentati su un piano cartesiano come funzioni del tipo y=f(x).
Assumendo la variabile dipendente y come la misura percepita attraverso il cannocchiale, e la
variabile indipendente x come la misura reale, possiamo affermare che:
  • La lunghezza del diametro sarà rappresentata dalla retta r: y=30x
  • L’estensione della superficie sarà rappresentata dalla parabola S: y=900x^2
  • Il volume sarà rappresentato dalla cubica V: y=27000x^3


(Si considerano ovviamente valori di x e y positivi, in quanto una misura reale non può assumere valori negativi)